Ma a ke servono kueste parole…

5 Aprile 2018

Mi chiedo spesso se un teatro di parola come il mio abbia ancora un senso nell'era dei social. Una domanda retorica, lo so da me. Ogni scrittore degno di questo nome si sfinisce dietro a un suono, una...

Mi chiedo spesso se un teatro di parola come il mio abbia ancora un senso nell’era dei social. Una domanda retorica, lo so da me. Ogni scrittore degno di questo nome si sfinisce dietro a un suono, una costruzione.  Noi sceneggiatori forse ancora di più,  perchè una parola deve associarsi a un personaggio, sottintendere, anticipare o accompagnare un’azione. La parola è un suono sacro che vive nel gesto, nello sguardo, nelle vibrazioni di un attore. In teatro le pause, i gesti silenziosi, gli sguardi muti sono recepiti in virtù delle parole che li hanno preceduti o che seguiranno. In principio era la parola e la parola pronunciata è vita in tutte le sue sfumature. E’ anche morte, inevitabilmente. La parola si contamina, invecchia, si accartoccia come le foglie d’autunno.
Finchè vive richiede una presenza, un’entità vivente che la pronunci,  che con un atto di coraggio la possa  dichiarare e autenticare.
Immortale è invece l’impronunciabile nulla.
La sua casa è il social, il sito di messaggistica, i suoi vestiti le mille faccine. Niente virgole, niente punti, niente pause.
Poche parole degradate e degradanti mi hanno annunciato la fine di un’amicizia, i tradimenti, decisione drastiche e crudeli: la comunicazione dell’odio è così immediata e brutale da non richiedere che poche sillabe. Quelle del presunto amore o della inconsistente amicizia hanno una larga  squadra di possibilità. La faccina storta in un bacio, che in realtà pare una smorfia di nausea, e poi cuori rossi, rosa, singoli e doppi, cuori spaccati o circondati da un nastro, cuori privi di cuore che attraversano lo schermo da una parte all’altra volando come anatre migratrici senza meta.
Una cara amica con cui, pur abitando a pochi metri di distanza, scambiavo lunghissime lettere sulle nostre vicende esistenziali, oggi mi invia sul telefono frasi scritte da altri, adorne di colombe, nastri e cuori, cartelli che rimbalzano da un account all’altro, talmente banali da essere offensivi. Almeno io li vivo così.
Riprendo l’incipit: che senso ha, dunque, il mio  teatro di parole?
Fatemi sapere, sul serio.