Mi Canaria, adiòs…

25 Gennaio 2016

Da ragazzina trascorsi più di un anno nelle isole Canarie. Mio padre era lì per lavoro, mentre io ovviamente non andai a scuola, ma nessuno se ne preoccupò, tanto ero avanti di un anno. Dovetti dir...

Da ragazzina trascorsi più di un anno nelle isole Canarie. Mio padre era lì per lavoro, mentre io ovviamente non andai a scuola, ma nessuno se ne preoccupò, tanto ero avanti di un anno. Dovetti dire addio agli amici della mia classe e fui costretta a studiare lo spagnolo a marce forzate, perchè così si faceva in casa mia a quel tempo: studiare la lingua del posto dove si andava in vacanza, (un trasferimento, poi richiedeva anche la conoscenza della letteratura!), essere indipendenti ed attivi ovunque. I primi giorni, comunque, non aprii bocca, sia perchè i canari parlavano a velocità molto sostenuta e quindi mi risultavano incomprensibili, sia perchè non capivo per quale motivo avessi dovuto affrontare un viaggio per mare, che diventò disastroso dopo lo stretto di Gibilterra e soffrire per il disagio causato dall’oceano in tempesta e per la nausea. Cominciò quindi in tono minore e con musi lunghi l’esperienza più importante della mia vita. Mio padre mi portò in una bella casa sul mare, mi presentò ai suoi amici e scomparve. In un certo senso, sì. Ogni tanto riappariva, mi insegnava delle cose straordinarie e poi mi rilasciava alla vita libera. Mi feci degli amici più grandi di me, con i quali trascorrevo la maggior parte del tempo al mare, in quel magico clima sempre primaverile, tipico di quelle islas afortunadas. Nuotare al massimo, nuotare sempre. Una volta si decise di attraversare un lungo e pericoloso braccio di mare. Arrivata a metà strada, capii che non avrei mai resistito: erano tutti più alti, esperti e robusti di me. Capii che stavo per affogare, ma non ebbi paura. A quel tempo non sapevo cosa fosse la paura. Mi lasciai andare…e qualcuno del gruppo mi trascinò a riva. Avevo ingoiato tanta acqua e osservavo da un luogo di pace e silenzio l’affannarsi del mio salvatore. Il commento di mio padre fu: ” Potrai sempre riprovarci, no?”
A una certa ora del pomeriggio arrivava a Playa de las canteras un autobus, chiamato la guagua, che riportava in città. Si usciva dall’acqua e si saliva sul bus a piedi nudi e con i costumi gocciolanti. Nessuno protestava. Alla propria fermata si salutavano gli amici con calma, ci si dava appuntamento, baci e abbracci. Si scendeva con la massima lentezza, perchè nessuno protestava. La vita, in quello scenario incantevole, scorreva serena e pacifica.  Mi piaceva perdermi tra le dune, da sola.  Qualche volta mi perdevo sul serio e dovevo aspettare che qualcuno passasse (magari dopo molte ore) per farmi indicare la strada. Imparai a suonare il timple e il pandero, sapevo cantare tutte le canzoni tradizionali canarie e mi piaceva far parte della band di Miguel, che la sera si esibiva sulla spiaggia. In poco tempo persi lingua, nazionalità, senso della misura e delle regole. Adoravo fare delle lunghe escursioni al Teide, dove tutto era riarso e le piante consistevano in un’unica spina durissima capace di captare la più piccola traccia di umidità. Il tempo trascorse in un magico presente assoluto. E poi venne la fine, il ritorno in Italia, in un paese straniero. Un dolore al limite del sopportabile. Non volli tornare mai più in Canaria. Ho sempre temuto che potesse non essere  all’altezza dei miei ricordi. Ogni volta che ho paura o quando non riesco a dormire, canticchio le canzoni canarie e ritrovo la pace.
“Siempre me voi a misa, me voi a misa de madrugada,
con la mantilla blanca, Virgen del Pino, Maria Sagrada…”

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